Twin Peaks 3 - Episodi 9x3 e 10x3
Hello and welcome to
“The middle of the Film”, parafrasando i cari Monty Python.
L’esplosivo (è proprio il caso di dirlo) ottavo episodio è
il perfetto intermezzo onirico, la giusta
cesura tatticamente posizionata a
mo’ di varco spazio-temporale tra il prologo con l’esposizione di tutte le
linee narrative, le piste, i registri, e la cavalcata verso l’epilogo.
Dopo il tumulto rivelatore ci troviamo di fronte ad un nono
ed un decimo capitolo rassicuranti, defaticanti, fortemente intenzionati a
ribadire la genuinità di certe scelte narrative a legittimarle affinché non
appaiano come mere digressioni o divertissement
per dinamizzare il racconto (là dove, tra l’altro, di agitare le acque e tenere
alta la tensione non ce ne sarebbe neanche necessità), ma si fondano appieno e
con giustificata presenza all'interno della storia. La costruzione identitaria
del sequel passa dal riproporsi di caratteristi
e situazioni propri appunto del solo sequel in un operare che è in linea
di continuità inevitabile con l’antefatto, ma è anche affrancamento
dall'originale.
Sono episodi di ritorni, ma anche “di famiglia”, il clan
Briggs ed il clan Horne che dominano la scena e che ognuno per propria
competenza ed in perfetta antitesi risultano sempre più chiave di volta
dell’intera vicenda sin dai suoi albori. Bobbie
Briggs che torna in scena dopo la breve ed intensa incursione delle prime
puntate, Betty Briggs con il marito Garland Briggs emblema del bene che come
fenice riemerge dalle ceneri del rogo in cui pensavamo fosse scomparso, Ben Horne e Jerry Horne ormai presenze fisse intrappolati in una kafkiana
staticità, l’uno come recluso tra le mura del suo ufficio alla perenne ricerca
con l’assistente Beverly Paige-Ashley Judd della fonte originaria di un sinistro suono che
proviene dalle pareti, l’altro disperso da un tempo indefinito nei placidi
boschi attorno alla cittadina ed in preda a deliri ed allucinazioni surreali ed
esilaranti. Ma è anche il ritorno inaspettato di Sylvia Horne che con il figlio Johnny sembrano riapparire quasi
solo esclusivamente per testimoniare l’appartenenza del malvagio Richard alla famiglia palesando in modo
abbastanza chiaro che sia figlio di quella Audrey
che è fin qui convitato di pietra e che aleggia possente senza mai essere
neanche nominata (e che quindi di conseguenza capiamo però essere scampata ad
una morte che sembrava certa nel finale della seconda stagione).
C’è poi il ritorno inteso come ricorrere insistito della
simbologia e di un cabalistico rimando al numero 253 che scandisce con ritmo
costante le fasi del revival (è il numero a cui si riferisce sibillino l’albero
della Black Lodge prima che Cooper riesca a fuggire ed è anche l’orario, 2:53
in cui quest’ultimo riappare al mondo come Dougie Jones)e che ritorna, nero su bianco quasi come un codice di
accesso alla Black Lodge, nel messaggio che il Maggiore Briggs prima di scomparire lascia in custodia alla moglie
ed in duplice forma, come coordinata per raggiungere il Jack Rabbit Palace e come orario preciso in cui ci si debba recare:
il luogo e l’ora in cui il poltergeist
si compie?!
C’è anche il ritorno a Laura, come faro a cui sempre guardare
per la risoluzione del tutto, che si palesa nuovamente nelle parole della Signora Ceppo ad Hawk “Laura is the one”,
e soprattutto come apparizione apparentemente immotivata ed improvvisa davanti
agli occhi di Gordon Cole.
C’è infine il ritorno inteso come rimando a ciò che era
accaduto nelle primissime fasi del revival e che finalmente trova un suo senso:
il mistero della morte dei due giovani nel loft di Manhattan, dell’identificazione
del corpo decollato (con tutte le sue implicazioni), a Diane, che si rivela
ancora più determinante di quanto fosse lasciato intendere, ma anche il
ricongiungimento della parentesi di Mr. Jackpot con il destino di Dougie Jones,
compreso il riproporsi dell’ottimo Belushi e delle tre Sandie, Mandie e Candie con i loro costumi sono un
cross-over tra le ragazze del One Eyed Jack
la Linda Scott che in Mullholland Drive intona “I've told every little star”.
La decima ora calca la mano della forma, oltre che della
sostanza ed è forse l’episodio più “fotografico”, con intermezzi, intervalli,
indugi sulla staticità degli ambienti, sulle quelle montagne che sono l’origine
e lo scenario di tutto. Tutto a Twin Peaks è immutabile, come cristallizzato in
una perfetta cartolina, la frenesia non esiste (chiedetelo a Lucy), è un
lavorare con lentezza che appare solo a tratti violentemente alterato dalla
furia cieca della follia, sia questa quella della vecchia conoscenza Bob o
quella altrettanto amorale e diabolica di Richard Horne, armato di un’ultraviolenza
da drugo kubrickiano (ed il
riferimento alla cinematografica Arancia
Meccanica nella scena del furto a casa Horne è assolutamente evidente).
Ed in questa attenzione all’estetica, alla costruzione quasi
pittorica dell’inquadratura si avverte una predilezione cromatica, un letterale fil rouge, là dove il rosso è proprio il colore dominante. Si
insiste sulla porta rossa di Dougie Jones, sulle scarpe alla Audrey che
riappaiono in fugace passaggio su di una impiegata del commissariato ed infine
maggiormente simboliche e rivelatrici su Naomi Watts che nel decimo episodio si
trasforma proprio in una sorta di Audrey, con le sue scarpette in bella vista
ed un’inedita malizia per sedurre Dougie così come Cooper veniva insidiato
ripetutamente proprio dalla piccola di casa Horne. E’ questa l’ennesima delle madeleine proustiane tra le tante disseminate qua e là dalla mano
sapiente di Lynch, l’evocazione dell’icona, forse un’esca di quanto andrà di
qui a poco a palesarsi (?!) di una Audrey che è di qui a venire? Quelle scarpette rosse ci riportano ad un solo
inevitabile luogo, nella stessa inesorabile Twin Peaks. Perché, altre scarpette
rosse care a Lynch ce lo hanno insegnato, “There's
no place like home”.
Gabriella Cerbai
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