JOBS - CTRL-ALT-DEL



Quando ci si approccia a biopic di personaggi contemporanei che tanto hanno influito ed influiscono sulla quotidianità di una gran fetta di mondo, si devono necessariamente mettere a preventivo una serie di insidie intrinseche. Il rischio in questi casi di restituire un ritratto apologetico e' stringente e concreto, il santino a cui mancano solo i lumini a corredo, e la mancanza di un contraddittorio che faccia almeno intravedere le potenziali ombre che inevitabilmente si stagliano alle spalle di ogni leggenda, sono lì che incombono a monito. Per non incappare nella trappola Joshua Michael Stern cammina furbescamente sul filo, tenendosi equidistante nel giudizio, senza schierarsi, ma mostrando asetticamente pregi e virtù aggiungendo una certa patina buonista e demogoga al tutto, e mettendosi così al riparo da eventuali accuse di faziosità, in un senso o nell'altro.



E quando il campo è così minato aggiungere rischio al rischio è operazione come minimo incosciente se non addirittura pretenziosa. Scegliere come protagonista il padre di tutti i toy boy non certo noto ai più per le doti attoriali, l'antesignano del “gallina vecchia fa buon brodo”, porta con se' una serie di considerazioni preliminari gossippare e di bassa lega che non depongono a favore della causa e che distolgono dal fulcro del discorso: è il classico bello che non balla, sta con Demi Moore, non sta più con Demi Moore, l'avevo detto io che la scaricava per una più giovane e bla bla bla.

Ma se schivare l'incubo dell'agiografia in questo caso è esperimento (quasi) riuscito, e la prova del buon Ashton Kutcher è ben più che superata ed il belloccio riesce abilmente ad affrancarsi dal preconcetto che lo accompagna, non è certo scontata la riuscita, soprattutto se è l'ossatura portante del racconto e quindi la costruzione del discorso in senso lato con tutti gli annessi e connessi, che difetta e naufraga. Lo stesso Kutcher, ottimo in una immedesimazione che rasenta il transfer, è penalizzato da una regia sciatta e misera, che annega la sua buona prova in un amaro fiume di ovvietà. Una carrellata di spunti abbozzati e tirati via senza costrutto e senso, ellissi narrative, dialoghi grossolani che si fanno addirittura grotteschi e ridicoli nelle iperboli melodrammatiche, cialtronerie e superficialità di ogni sorta.

Jobs non è The Social Network, e si vede. Stern non è Fincher e lo si capisce dopo neanche cinque minuti di pellicola, grazie ad un incipit snervatamente didascalico, proprio lì, dove come in un riassunto delle puntate precedenti in puro stile soap opera, si affanna ad esporre, come neanche una pagina di wikipedia, info biografiche e curiosità a manciate, come a volersi assicurare che il popolo bue sia sufficientemente e preliminarmente edotto per comprendere la visione.
Ciò che ne consegue è un ritratto stereotipato fino all'eccesso, un corollario di ovvietà, messe in fila nel modo più consueto e banale possibile, senza un guizzo, una scelta che si possa realmente definire autoriale. E il confronto tra il messaggio che si vuole rappresentare e la sua stessa rappresentazione è impietoso: Jobs non vuole che la sua creatura sia omologabile, la sua più grande intenzione e' dirottare la creatività verso forme altre che si affranchino da un concetto standardizzato e massificato. L'altro da se' e' la magnifica ossessione.
Joshua Michael Stern disattende ogni tipo di lettura lata di questa visione avveniristica ed immaginifica, servendo l'epopea Apple come si fa con un cibo precotto, scaldato qualche secondo e senza cura, e condito con una scontatissima salsa di prevedibilità e stilemi da fiction tv. Manco fosse prodotto da un IBM o da una Microsoft qualsiasi, direbbe forse Jobs. Quello vero.

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