SIMPATHY FOR THE DEVIL – “I, TONYA” COME ANTI-AGIOGRAFIA


Ci sono molte ragioni per decidere di raccontare una storia, è quella che al film di Craig Gillespie non fa difetto è l’urgenza del qui ed ora, la sua assoluta appropriatezza all’interno del contesto socio culturale di riferimento, la necessità di una certa narrazione in quel dato momento in cui i corsi e ricorsi storici rendono, a dispetto dello scenario esatto e dei costumi evocati, completamente allineati l’alveo originario che la vede nascere e quello posteriore che la vede rievocare. Una assoluta contemporaneità. Fermandoci ad una macro-analisi e alla luce di una critica politica e sociale I, Tonya,  è una denuncia del culto dell’apparenza e del politicamente corretto al cospetto dei quali si genuflette costantemente la società USA come da tragica tradizione.  Gli echi dell'edonismo reaganiano, evidenziati dal riferimento un po' didascalico del poster del Presidente che ancora campeggia  sul muro del salotto della classica middle-class USA fatta di obesità, ignoranza, vuota mitomania e villette prefabbricate, è il trait d’union con l’attuale scenario culturale nordamericano ed il suo assoluto elogio dell’effimero e della più totale vacuità. Siamo nella democratica epoca di Clinton ai tempi in cui lo scandalo Harding scuote l’America, Tonya/Margot ci ricorda che la sua popolarità è seconda solo a quella di Bill, ma gli Stati Uniti restano ancorati ad un endemico provincialismo che fa dell’esaltazione dell’apparenza il più radicato dei suoi assiomi. Ed è lo stesso clima di sconcertante delirio e di esasperazione del sembiante a dispetto del reale e del concreto quello in cui esce quest’opera, una esaltazione collettiva dell’ipocrisia e del posticcio che l’avvento di The Donald ha inesorabilmente portato con se’o perlomeno esasperato.


Come in una sorta di ribellione Margot Robbie in una delle scene topiche della pellicola, all’apice del tragico, esaspera il grottesco sul suo volto caricando e spalmando il trucco pesante fino a divenire maschera espressionista, immagine orrorifica, un Urlo di Munch vivente. D’altra parte United States of Tara è stata una buona palestra per Gillespie, il disturbo dissociativo della sua eroina seriale ben lo ha aiutato a comprendere il cortocircuito di quella (e di questa) società, e di conseguenza anche la profonda lacerazione psichica di chi viene automaticamente escluso, nonostante gli immani tentativi di aderirvi, da uno schema archetipico scomodo e stereotipato e quindi a più riprese rigurgitato e malamente espulso come persona non gradita. Tonya è la polvere da nascondere sotto il tappeto, come viene costantemente dichiarato dentro e fuori metafora, è quella America della quale occorre negare l’esistenza, l’esatto contrario del prototipo di plastica che si vuole esibire al mondo intero in propria vece, l'opposto della proverbiale fatina sulle lame che incarna  la beniamina dalla e per la “classica famiglia americana”. Ma Tonya è proprio l’America perdente che di gran lunga domina su quella vincente e patinata ed è per questo che deve essere cancellata, ad eliminare le prove di un colossale fallimento: “I’m a loser baby, so why don’t you kill me?.

Ed è sempre per la stessa ragione che la sua non può essere una agiografia, un santino edulcorato e riabilitativo, ma una cruda realtà, se pur compassionevole, ma che non ne nasconde le caratteristiche più grevi e deteriori. Tutto in lei è stonato, persino lo scandalo da dare in pasto ai media è fonte di imbarazzo perché la protagonista è un cancro della società e non gode del fascino e del successo di un O. J. Simpson che prontamente infatti le ruba ,suo malgrado, la scena.



E se ci sono molte ragioni per decidere di raccontare una storia ci sono molti anche modi di raccontarla e altrettante verità, c’è chi giura di aver visto Tonya stessa colpire Nancy, come afferma l’alter-ego filmico di Jeff Gillooly, Sebastian Stan.  L’opinabilità del ricordo è una beffa sin dal titolo, quell’I, Tonya che è dichiarazione di intenti spudorata. Quell’IO esibito che per il brutto vizio italico di ribattezzare tutto ciò che già ha un nome sparisce nella “traduzione” è in realtà la vera chiave di lettura a cui affidarsi. Ma il film di Gillespie non cerca ossessivamente di attribuire lo stesso peso specifico ad una pluralità di sguardi nonostante questi siano ben rappresentati dalle interviste in prima persona agli altri protagonisti della vicenda, in questo è dichiaratamente parziale, non è un esperimento alla Rashomon. La pellicola è “Di Tonya”, finalmente una sua esclusiva proprietà nel mare di miseria e accondiscendenza a cui è sempre stata costretta. 

Posso essere brutale, abbrutita, imbruttita, impopolare, mi si perdona anche l’uso/abuso dell'interpellanza, dello sfondamento della quarta parete che solo a me viene concesso come deroga ad uno dei fondamentali del discorso filmico. Tutto mi viene autorizzato perché questa sono io, è la mia storia, è la mia verità, è la mia dannazione, è la mia fragilità esposta al pubblico ludibrio, è la mia volontà di riscattarmi chiedendo di sottolineare quanto nel presente io abbia ripreso le redini delle mia vita e mi sia costruita una vera famiglia, simile a quella da cartolina che mi è stata sottratta, proprio come quella stereotipata che avrei dovuto mostrare al mondo intero e che per tutta la vita mi ha perseguitato.






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